VIOLENZA DELLA LUCE.

Di Ludovico Cantisani, saggista, studioso di cinema e produttore romano.

La luce che insegue: è questo il gustoso paradosso a partire dal quale è stato costruito fotograficamente e ossimoricamente Tenebrae, il film di Dario Argento del 1982, seconda collaborazione con Luciano Tovoli alla fotografia, che intendeva ribaltare asimmetricamente il colorismo notturno di Suspiria. Tra le geometrie dell’EUR già benedette da Antonioni con L’Eclisse, anche la notte ha il suo chiarore: la luce si infila ovunque, non meno del coltello del misterioso assassino che, in uno dei colpi di scena più sfrenati dell’intero cinema argentiano – spoiler alert – si rivelerà essere il protagonista stesso.

In una Svezia rurale su cui Bergman non sembra aver mai poggiato gli occhi, un gruppo di turisti americani non sa di aver pagato per la propria condanna a morte. Il religioso si ribella sempre a quegli sguardi che vogliono ridurre tutto al dato folklorico. Gli americani saranno a poco a poco fatti a pezzi in complessi rituali – tutti tranne una, che diventerà la regina della festa. Quasi quarant’anni dopo Tenebrae, Ari Aster rigioca la carta dell’horror in piena luce – e riesce appieno: il risultato, Midsommar, è un horror che sarebbe disperatamente piaciuto a James Frazer.

Torniamo indietro nel tempo. The Wicker Man, di Robin Hardy, datato 1973, si contende con Gli Uccelli di Hitchcock il titolo di primo film horror alla luce del Sole – ma siccome l’etichetta “horror” ha sempre qualcosa di posticcio su un film di Hitchcock, vada per The Wicker Man allora. Interpretato da Cristopher Lee e Lindsay Kemp, il filmci mostra un agente di polizia, sulle tracce di una bambina scomparsa, scoprire che su una misteriosa isola della Scozia si pratica ancora il paganesimo celtico. Seguiranno sangue, e sacrifici. Insomma, su tre classici dell’“orrore in piena luce”, due hanno a che fare con le sopravvivenze di ritualità arcaiche. È qualcosa meno di un indizio. 

Tutta la tradizione occidentale inneggia alla luce contro la notte. «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero»: la positività dello sguardo, l’imperialismo della theoria impregna perfino il Credo cristiano ripetuto a ogni Messa domenicale, mentre, più beffardo, Pirandello con la sua lanterninosofia lasciava emergere una sinistra dialettica tra ciò che conosciamo, la luce, e l’immensa oscurità delle cose che non conosciamo, non possiamo conoscere, non sappiamo di non conoscere. «La luce si fa avara/Amara l’anima», scriveva Montale in Ossi di seppia, inconsapevole futuro premio Nobel – senza dubbio dei poeti italiani del Novecento il più attento ai giochi di luce, seguito a ruota da Ungaretti e dalle sue ghirlande di stelle. Ma lo stesso Paradiso di Dante, sei secoli prima, era tutto un salmodiare alla luce.

Gli horror occidentali recano con sé infinite tracce del retaggio cristiano. Ma una peculiare maturità antropologica, e originalità archetipica, la dimostrano quegli sparuti horror ambientati sul far del giorno. C’è da dire che è cognitivamente difficile demonizzare la luce – quello della clear view è rimasto un ideale stabile anche a due secoli dalla morte di Dio. Eppure, qualcuno ha saputo chiudere le tende a certe categorie fin troppo stabili del nostro pensare. La verità, sin dai primordi del linguaggio greco, è sempre stata connessa al tema del vedere. La maggior parte degli horror, ambientati di notte o al crepuscolo, denunciano già con l’ambientazione il loro carattere falso, artificiale, costruito. Gli horror solari, in cui la luce non dà scampo, permettendo una chiara visione inculcano anche un totale orrore.

Non che bisogni demonizzare la demonizzazione delle tenebre, tipica della nostra cultura prima ancora che della nostra cinematografia – tutt’altro. Forse la cifra profonda dell’orrore sta quando, dall’oscurità, si palesa improvvisamente, e in piena luce, qualcosa che non ci doveva essere, un Inaspettato Mostruoso, un ritorno del rimosso inferocito. L’epifania richiede un contorno oscuro per palesarsi – lo sa bene Bacon, con le sue deleuzianissime figure. L’autentica epifania – non per forza gioiosa – è rappresentata benissimo da quei “film minimi” di Philippe Grandrieux, in cui figure femminili si stagliano violentemente in uno spazio nero e neutro, urlanti, ridotte a un’individualità disperata, ma irriducibile. Ecco allora il nostro momento preistorico – fuori dalla caverna.

Unrest, Philippe Grandrieux.

Oscillava, la luce oscillava – beffarda, perennemente in fuga, eppure sinistramente regolare, nella sua capricciosità. Non diversamente dev’essere parsa la luce ai primi uomini, che contemplarono l’alternarsi e l’inseguirsi di giorno e notte con occhi che perdutamente si interrogavano sull’indomani: la luce sarebbe tornata? Da questa incertezza sgorgano tutti i riti.

Non sono pochi i miti e i racconti antichi che hanno a che fare con la morte del Sole – lo stesso titolo che, millenni dopo, l’oscuro filosofo italiano Manlio Sgalambro avrebbe dedicato a uno dei suoi libri maggiori, tra una canzone di Battiato e l’altra. Per non parlare dell’eclisse – sulla quale si apre anche Occhiali Neri, ultimo film di Dario Argento, più scontato di un Suspiria o di un Tenebrae nel gestire la luce e il buio, eppure ancora capace di evocare incubi archetipici.

Ma l’aporia, la difficoltà sta proprio nel concetto di incubo, nell’automatica negatività che il nostro linguaggio conferisce alla notte, ad ogni notte: solo la più alta forma d’arte che la cultura occidentale ha prodotto, la tragedia, ha saputo raggiungere il crollo di queste categorie schematiche. «Sole, Sole, che io ti veda adesso per l’ultima volta!»: l’urlo di Edipo risuona tuttora, non ancora esplicitato in tutte le sue implicazioni epistemologiche. Film come Midsommar o The Wicker Man ci mostrano l’altra metà del rito: si pongono, cioè, dalla parte delle vittime, o perlomeno di spettatori esterni che scoprono, a volte al prezzo del loro stesso sangue, qual è il costo del Giorno.

Lezioni di tenebra, amor di chiaroscuro. Chi ha detto che sia la notte l’ultima assassina?